* a cura di Virginio Pietra – Già Rappresentante Medicus Mundi Italia in Burkina Faso
In Burkina, come negli altri paesi saheliani, la sopravvivenza della maggioranza delle famiglie dipende dall’agricoltura e dal piccolo allevamento, e quindi dall’andamento delle piogge monsoniche, che iniziano a maggio e terminano in ottobre, mese del raccolto. A seconda di come è piovuto, le scorte di miglio cominciano a scarseggiare tra febbraio e maggio: è l’inizio della saldatura – che durerà fino al nuovo raccolto – durante la quale si mangia, se va bene, una volta al giorno. Quando le scorte finiscono, la polenta si fa con il miglio comperato sul mercato grazie alla vendita di capre e polli o alle rimesse dei familiari emigrati in Costa d’Avorio. Per la maggioranza delle famiglie, la fame è quindi un’ospite sgradita ma attesa ogni anno, per periodi più o meno lunghi, e sopportata in silenzio, per stoicismo e per ritegno. Per tutto l’anno la maggioranza delle donne e dei bambini burkinabé sono anche accompagnati dalla fame nascosta, cioè da deficit nutrizionali dovuti non alla scarsa quantità di cibo ma alla sua qualità. Culturalmente, nelle campagne donne e bambini vivono infatti in dieta vegana obbligata, carente in micronutrienti che sono sali minerali, quali ferro o zinco, e vitamine come la A o la B12.
La fame stagionale e la fame nascosta dei poveri, a parte casi estremi, sono talmente diffuse da non essere percepite come un problema, per cui sono considerati normali – come in Italia fino agli anni ’50 – il dimagrimento durante la saldatura tra i raccolti, l’anemia di donne e bambini e la bassa statura che risulta da un’alimentazione cronicamente deficitaria. Diverso è invece nel caso delle grandi carestie che nel Sahel si verificano circa ogni dieci anni, a seguito di periodi di siccità generalizzata. Queste carestie sono percepite come catastrofi non solo all’interno dei paesi colpiti, ma anche a livello internazionale: in Burkina Faso, la carestia degli anni ’70 ha provocato l’arrivo nel Paese delle Ong europee e statunitensi, quella degli anni ’80 l’inizio delle attività per molte cooperazioni bilaterali, tra cui quella italiana, e per le agenzie delle Nazioni Unite.
Con l’ultima grande siccità del 2011 inizia l’impegno su larga scala di Mmi nella lotta contro la malnutrizione, di cui l’Ong si era precedentemente occupata solo nell’ambito della cura di bambine/i positive/i all’Hiv in cura negli ospedali dei Religiosi camilliani, nella capitale Ouagadougou ed a Nanoro, in zona rurale. Per loro, oltre al trattamento antiretrovirale, è infatti indispensabile intervenire nel recupero della malnutrizione acuta, e a questo fine Mmi è stata tra i primi in Burkina ad introdurre i protocolli Oms, basati su alimenti terapeutici pronti all’uso. Questi sono un mix preconfezionato di pasta d’arachide, latte artificiale e micronutrienti, che le mamme possono somministrare a domicilio, con visite ambulatoriali settimanali. Grazie anche all’esperienza di Mmi, questi protocolli erano stati adottati a livello nazionale ma non ancora introdotti su larga scala. In collaborazione con Lvia, un’altra Ong italiana, ogni anno e per cinque anni circa 10mila persone malnutrite gravi sono state curate e nella quasi totalità guarite. Cosa altrettanto importante, il protocollo di recupero nutrizionale continua ad essere applicato in routine dopo la fine dell’intervento delle Ong perché, anche al di fuori delle carestie, i casi di malnutrizione ci sono sempre, in particolare nel periodo della saldatura.
Inoltre, a differenza di quanto accaduto in passato, la fine della crisi alimentare del 2011 non ha coinciso con la riduzione dei fondi per interventi in ambito nutrizionale. Nel Centro Ovest Mmi ha così continuato a lavorare – questa volta su finanziamento della Cooperazione italiana – non più in un contesto di emergenza, ma sul lungo termine. Sempre in collaborazione con il sistema sanitario locale, si è dato inizio ad un programma di educazione nutrizionale basato su indicazioni Oms per migliorare le pratiche alimentari nei mille giorni che vanno dal concepimento ai due anni di età di bimbe e bimbi. Queste pratiche comprendono l’aumento del consumo di cibi di origine animale per le donne in gravidanza e che allattano, la messa al seno precoce e l’allattamento esclusivo nei primi mesi di vita seguito dall’introduzione di un’alimentazione di complemento al latte materno adeguata per frequenza e per qualità. Per l’alimentazione di complemento sono proposte ricette basate su ingredienti che le famiglie producono o che possono reperire facilmente sul mercato locale oppure disponibili spontaneamente nella savana, come i frutti del karité o del baobab. Come alimenti di origine animale – che sono naturalmente i più cari – sono proposti principalmente quelli più diffusi ed abbordabili, uova, pesce secco e carne di pecora. I messaggi di educazione nutrizionale sono trasmessi dal personale sanitario affiancato da animatrici che, dopo una specifica formazione, conducono dimostrazioni culinarie con gruppi di madri. Sempre seguendo indicazioni Oms, l’educazione nutrizionale è stata affiancata da interventi di supplementazione in ferro e acido folico delle donne in gravidanza e dopo il parto, e con la fornitura alle madri di sacchetti di polveri di micronutrienti, da aggiungere ogni giorno al cibo dei figli.
In totale, le coppie madre-bambino che, nel Centro Ovest, beneficiano ogni anno dell’insieme di queste prestazioni sono circa 60mila. Grazie a tutto questo, nella regione la percentuale di bimbe e bimbi sotto i 5 anni di età in ritardo di crescita (statura troppo bassa rispetto all’età) si è ridotta da oltre il 30% a meno del 20%.
Oltre ad ottenere questi risultati, questi anni di lavoro hanno permesso di scoprire i limiti degli interventi, e quindi di identificare le nuove sfide da affrontare.
In primo luogo, l’educazione nutrizionale si rivolge alle donne, che acquisiscono conoscenze spesso però senza avere la possibilità di metterle in pratica, in quanto il controllo degli alimenti a più alto valore nutrizionale o la capacità di comperarli dipende dal marito. Fortunatamente però la gestione patriarcale sembra inalterabile solo con i mariti più anziani, mentre i giovani, se informati, sono disponibili al cambiamento per il benessere della famiglia. Il tempo giuoca quindi a nostro favore, a patto di smettere di ragionare in termini madre-bambina/o e di passare ad un approccio madre-padre-bambina/o.
Un secondo limite risiede nel fatto che – come in ogni tempo nel mondo rurale povero – gli alimenti a più elevato valore nutrizionale sono riservati alla vendita e non all’autoconsumo. Ad esempio, per i capifamiglia, il pollaio rappresenta qualcosa che sta a metà tra il conto in banca ed un’assicurazione, ed anche le uova sono preziose perché destinate alla cova. Una sfida è, quindi, l’identificazione e la sensibilizzazione su semplici tecniche per selezionare le uova non fecondate, da sottrarre alla gallina e destinare alla cucina. Altri esempi riguardano l’agricoltura, in cui tecniche di trasformazione e conservazione potrebbero permettere di non sprecare il surplus.
Su tutti questi progressi e queste nuove sfide pesa però la guerra del Sahel, che coinvolge ormai quasi la metà del Burkina e che nelle regioni più colpite dall’insurrezione jihadista ha annullato dieci anni di miglioramenti della situazione nutrizionale. Finora nel Centro Ovest ci sono state solo poche incursioni, ma la guerra del Sahel – di cui oggi non si intrave de una soluzione né militare né negoziata – assorbe risorse nazionali ed internazionali a scapito dei budget dei settori sociali. Dobbiamo prepararci a tempi più duri, e la gente dei villaggi lo sa meglio di noi: nella lingua locale, sia la pace che la salute si traducono con la stessa parola.