Aids Day 2021 – Intervista a Marco Simonelli, antropologo, esperto di salute globale
Ottimo il lavoro fatto, ma serve una nuova mobilitazione mondiale
Marco Simonelli, antropologo di formazione, ha lavorato per oltre dieci anni in progetti di ricerca e cooperazione in diversi paesi dell’Africa sub-sahariana (Tanzania, Kenya, Zambia, Sud Sudan, Uganda, Burundi, Mali, Etiopia, Liberia). Attualmente è ricercatore presso il Centro Salute Globale dell’Istituto Superiore di Sanità e consulente per i Friends of the Global Fund Europe, occupandosi di politiche, strategie e programmi sulla Salute Globale nei paesi a basso reddito.
Nella tua esperienza personale quando avviene l’incontro con l’Aids?
Nel 1997, in Mali prima e Tanzania dopo, per una borsa di studio post-laurea in Antropologia medica. In Mali, nonostante non fossi andato per lavorare sull’Aids, ogni volta che si parlava di certi sintomi c’era la paura si trattasse di Aids (un po’ come oggi per il Covid-19). In Tanzania collaboro con un’antropologa norvegese nella regione di Kigoma, Grandi Laghi, e subito m’imbatto in quella che era davvero l’emergenza numero uno nel Paese, l’Hiv, in particolare fra i giovani. Da quell’esperienza di ricerca, nasce l’idea di creare un centro Giovani a Kigoma che fornisca contemporaneamente informazioni e servizi (trattamento delle infezioni sessualmente trasmesse, counseling & testing Hiv). Da lì l’idea la portiamo nella Regione di Dodoma, dove con la prima Ong con la quale ho lavorato, nel 1999 diamo avvio al progetto Mambo Poa Youth Centre, un centro di aggregazione giovanile (attività culturali, sportive, ecc.) che contempli al suo interno servizi di salute sessuale e riproduttiva indirizzati alle e ai giovani.
Sei in Africa quando accade la conferenza di Durban…
Sì, nel luglio del 2000 ho avuto il privilegio di prendere parte a quello che è probabilmente stato l’evento che ha cambiato il modo di affrontare la questione Aids in Africa e nei paesi a basso reddito: la XIII Conferenza Internazionale a Durban, la prima volta in un “Paese in Via di Sviluppo”, e contemporaneamente nel Paese con la più alta prevalenza Hiv nel Mondo. Per la prima volta lì assistiamo ad un’enorme risposta collettiva e multisettoriale ad un problema sanitario di portata globale, che vede medici, ricercatori, scienziati, leader politici, attivisti della società civile, lavorare assieme. Il Presidente dell’International Aids Society, che portò appunto la Conferenza lì in Africa, per la prima volta, dove era il vero bisogno, era il professore Stefano Vella: dopo oltre vent’anni siamo ancora amici, lavoriamo ancora assieme, siamo entrambi coinvolti nei Friends of the Global Fund Europe.
Come era la situazione prima della conferenza di Durban?
Prima della Conferenza di Durban probabilmente non c’era una coscienza collettiva di appartenere a un movimento che potesse cambiare le cose. Quando lavoravo a Dodoma i programmi di lotta all’Aids avevano essenzialmente lo scopo di fornire alle persone un’opportunità di conoscere ed eventualmente accettare il proprio stato di sieropositività in un ambiente “confidenziale” che fornisse indicazioni su come affrontare la situazione (comunicazione al/alla partner, adozione di pratiche di sesso protetto), sostegno psicologico, emotivo e – in parte – avviare ad un percorso di cure mediche (cure palliative o trattamento di eventuali co-infezioni quali la tubercolosi, o al massimo per le donne incinte il trattamento per ridurre il rischio di trasmissione al bambino). A volte si trattava anche di un supporto socio economico al malato, ma era niente più che un pò di cibo: mi ricordo ancora le campagne di informazione promosse dal governo, dalle agenzie internazionali e dalle Ong: si raccomandava ai malati una dieta ben bilanciata con frutta, verdura, carne, pesce, carboidrati … ma vi potete ben immaginare quanto fosse quasi ironica questa raccomandazione per una popolazione rurale che mangiava – quando andava bene – polenta di mais una volta al giorno per tutti i giorni della settimana.
Per anni abbiamo lavorato in progetti che avevano purtroppo principalmente un solo scopo: informare, sensibilizzare, e che però non potevano offrire grandi soluzioni a chi era già sieropositivo.
Dal tuo punto di vista, quali i progressi fatti in 20 anni e quali ancora gli ostacoli da rimuovere
Davvero tantissimi progressi. Gradualmente si è passati da un lavoro basato quasi esclusivamente sulla prevenzione e sulla sensibilizzazione, ad un lavoro che contemplasse anche i diritti, i diritti delle persone sieropositive e di tutte quelle categorie di persone discriminate, marginalizzate che si dovevano nascondere piuttosto che cercare test e terapie. È così che gruppi di persone stigmatizzate – lavoratori e lavoratrici del sesso, consumatori di sostanze stupefacenti per via endovenosa, persone Lgbt, si sono resi visibili e sono diventati attivisti, assieme alle persone affette. Siamo passati da un ruolo passivo (anche del malato e del paziente), ad un ruolo attivo per riscrivere le policy internazionali su trattamento, prevenzione, chiedere accesso equo ai trattamenti e ai farmaci che cominciavano ad arrivare. Nasceva in quegli anni, e proprio anche in seguito alla conferenza di Durban, il movimento anti-Aids. È proprio grazie a quel movimento che le regole sono cambiate e che oggi abbiamo una vasta diffusione di farmaci antiretrovirali generici, accessibili a tutti e in tutti i Paesi. Grazie a quel grande movimento di attivisti l’opposizione delle case farmaceutiche proprietarie dei brevetti sui farmaci antiretrovirali è stata superata dal diritto di produrre e commercializzare farmaci generici per i paesi in difficoltà economica ed epidemica, è stato creato insomma un doppio binario con prezzi differenziati a seconda delle capacità economiche dei Paesi. Il movimento anti-Aids ha contribuito a creare un modello non solo per la salute ma anche per i diritti umani. Sempre in quegli anni nascono importanti meccanismi di finanziamento come il Global Fund to fight Aids, Tubercolosis and Malaria (fortemente voluto anche dall’Italia durante il G8 del 2001) e l’Us President Emergency Plan for Aids Response che diventano una formidabile leva per mobilizzare finanziamenti per la lotta all’Aids.
Cosa non ha funzionato e va migliorato?
Per esempio quando i finanziamenti arrivavano copiosi e i farmaci erano diventati disponibili, la situazione dei servizi sanitari dei paesi a basso reddito e della Tanzania in particolare faceva sì che fosse comunissimo sentir parlare di difficoltà di distribuzione dei farmaci nelle zone rurali (ma non solo) a causa delle piogge, o di esaurimento delle scorte per ragioni le più disparate (a cominciare dall’uscita dal paese di un grande donatore). Per non parlare delle enormi contraddizioni di quel periodo di grandi finanziamenti per la lotta all’Aids: il paradosso di vivere un momento di grandi progetti verticali per singole malattie, fra tutte appunto l’Hiv, che avevano un grande impatto su una singola malattia, ma contemporaneamente vedere centri sanitari nei quali – a parte la componente Hiv finanziata dalla comunità internazionale, che permetteva perfino il follow-up e il tracciamento del paziente e dell’aderenza alla terapie – gli altri reparti, pediatria, ortopedia, ecc. in situazioni disastrose.
Poi la situazione si è normalizzata: la componente di rafforzamento dell’intero sistema sanitario è diventata parte integrante anche dei progetti verticali. I risultati, in questi ultimi vent’anni, sono stati evidenti. Questo fino all’arrivo del Covid-19, però, che ha travolto i sistemi sanitari ed i lockdown hanno interrotto la fornitura dei servizi, interrompendo i progressi ottenuti negli ultimi vent’anni nella lotta all’Aids (ma anche alla tubercolosi e alla malaria). In molti paesi, per combattere la nuova pandemia, sono state dirottate risorse economiche che invece erano previste per la lotta contro l’Hiv, la tubercolosi e la malaria.
Il ruolo della società civile. Secondo te esiste ancora mobilitazione efficace su questi temi?
Credo che servirebbe oggi una mobilitazione analoga a quella cominciata a Durban. Oggi più che mai, in piena pandemia da Covid-19, l’esperienza dell’Aids dovrebbe essere rivalutata, c’è davvero bisogno di un movimento di attivismo simile a quello che nacque più di vent’anni fa.
Perché per molti versi, oggi con il Covid-19, ci troviamo in una situazione analoga a quella degli inizi del duemila con l’Aids. A quasi due anni da quando il Direttore generale dell’Oms ha dichiarato l’emergenza Covid-19 e ad un anno di distanza da quando il primo vaccino Covid-19 è stato approvato, sono stati somministrati nel mondo oltre 7 miliardi di dosi di vaccino, ma mentre nei Paesi ad alto reddito è stata vaccinata con almeno una dose il 73% della popolazione, nei paesi a basso reddito siamo al 4%. In Burundi, ad esempio, la percentuale della popolazione vaccinata è pari allo 0,01% e nella Repubblica Democratica del Congo allo 0,04%. Oppure, il numero di tamponi per Covid-19 disponibili ogni 1000 persone è 51 in Austria, 13 nel Regno Unito, 8 in Italia ed in fondo poi c’è una lunga lista di Paesi – prevalentemente africani – fermi a zero-virgola. Tutto questo nonostante i proclami e le dichiarazioni dei grandi fora internazionali. È qui che vedo la necessità di una mobilitazione della società civile, che però forse è, almeno al momento, ancora un poco timida. Una mobilitazione però nuova, diversa, che coinvolga – o almeno cerchi di coinvolgere – anche la società civile di quei Paesi che sono le potenze economiche emergenti.
[testo raccolto da Barbara Bonomi Romagnoli]