Roma, 15 aprile 2020
© Francesco Cocco/Contrasto
di Barbara Bonomi Romagnoli
All’indomani delle prime rivolte nelle carceri italiane, Francesco Cocco ha iniziato a Modena a fotografare il tempo del Covid19. Dal 10 marzo fotografa nei presidi ospedalieri dove gli è stato dato il permesso dalla Ausl, nelle tende davanti ai pronto soccorso dove si effettuano i pre triage, muovendosi fra Sassuolo, Vignola, Mirandola e Pavullo.
Avvicinandosi con prudenza in questi ultimi giorni al cuore, alla terapia intensiva, perché, anche se ci si arriva dopo “è un avanposto fondamentale dove – racconta Cocco – non ho visto solo anziani, sfatiamo questa idea, ma anche dei giovani”.
Perché sei voluto entrare dentro?
Per riportare delle immagini che facessero capire a chi sta a casa, a fatica, che cosa significa stare lì, intubati per due settimane e poi passare alla sub intensiva per la riabilitazione. Forse, non aiuta dire che stiamo andando meglio, non ci sono ancora dati sulle ricadute. Per primo ho cambiato prospettiva dopo essere entrato dentro, in questo periodo ho capito effettivamente che cosa stiamo vivendo.
Cosa ti ha colpito di più entrando a contatto con i pazienti e le operatrici/gli operatori sanitari?
Mi ha toccato profondamente la dedizione, la serietà, la protezione massima e la presenza attenta di medici e infermiere/i. Fanno turni molto lunghi, spesso senza neanche mangiare o andare in bagno per via delle protezioni che si indossano. A volte sono in 4/5 attorno ad un letto e si muovono in sincrono. Per riconoscersi devono scriversi in grande i nomi con i pennarelli davanti/dietro le tute perché altrimenti non si riconoscerebbero. A volte sembrano macchine, tanto sono precisi nel compiere certi gesti.
Solo con un paziente che era cosciente sotto il casco ho stabilito un contatto visivo di saluto, gli altri erano tutti con gli occhi chiusi, dormienti.
Il Covid19 viene spesso descritto con linguaggio di guerra, sei d’accordo?
No, questa non è una guerra, quando sei in un posto di guerra – e penso a quando sono stato in Afghanistan o altri luoghi di crisi – hai dinanzi a te un pericolo tangibile. Lo senti anche quando non lo conosci, senti sparare, vedi i bombardamenti e i proiettili traccianti nel buio, hai paura di qualcosa che vedi o che potrai vedere. Qui non sai mai dove è il virus, anche se sei circondato da persone con guanti e protezioni. E il virus non è un nemico, anzi forse diventerà qualcosa con cui dovremo convivere, come ha detto se non sbaglio l’autore di Spillover: davvero gli umani pensavano di essere gli unici sulla Terra?
Come in altri casi di “emergenze” c’è una sovraesposizione mediatica e girano molte fake news, in che modo la fotografia potrebbe essere “manipolata”?
Il rischio c’è sempre anche con la fotografia, che venga usata fuori contesto. A me piace dire che in fondo la fotografia è una sorta di ‘continua bugia’, l’obiettivo della macchina fotografica non restituisce mai la sensibilità dell’occhio che guarda. Tutto ciò che non aumenta la qualità di una fotografia, la danneggia. In situazioni come queste dobbiamo cercare di essere il più possibile neutri. Ho cercato di placare l’ansia che sale quando devi entrare indossando tutte le protezioni individuali nel reparto e anche di placare il senso di tristezza enorme che senti nel vedere i pazienti e le condizioni estreme di chi li cura.
Non è la prima volta che lavori sul tema della salute: cosa c’è di diverso adesso, se c’è
Qui senti la corsa contro il tempo della grande emergenza, della rincorsa per cercare le cure. In Burkina Faso ad esempio come in altri paesi africani ho visto la difficoltà dell’accesso alle cure, la mancanza di presìdi, qui siamo ancora alla fase in cui manca la speranza della cura.
Se dovessi scegliere una immagine simbolo che vada oltre la mascherina, quale sceglieresti?
Effettivamente la mia prima fotografia a Modena è stata di un migrante in bicicletta che avanzava con la mascherina, poi non ho più ricercato quel simbolo. Se dovessi pensare ad un altro simbolo mi vengono in mente i movimenti del corpo durante la vestizione/svestizione e poi gli sguardi – sopra, dietro, oltre la mascherina. Sguardi stanchi, spaventati ma anche fieri come quelli che ho incrociato nella terapia intensiva. E in questi giorni pensavo: se il tempo che verrà sarà il tempo delle mascherine forse accadrà qualcosa che non avveniva da parecchio – travolti come eravamo dalle nostre vite frenetiche – dovremo tornare a guardarci, sarà necessario guardarci negli occhi e provare a riconoscerci.
Pensi di raccontare anche il dopo?
Sì per vedere cosa è cambiato, un po’ come ho fatto dopo il terremoto in Emilia Romagna 8 anni fa, per un anno intero ho girato fotografando per restituire per quanto possibile il cambiamento.
Francesco Cocco è nato a Recanati nel 1960. Inizia a fotografare nel 1989 rivolgendo il suo interesse alla difficile e complessa realtà di coloro che vivono ai margini della società. Nel 2002 inizia un lavoro di documentazione sulla condizione carceraria, culminato nella mostra e nel libro “Prisons” (Logos) e presentato a Visa pour L’Image a Perpignan (2005) e a Les Rencontres d’Arles (2006). Nel 2003 entra a far parte dell’agenzia Contrasto. Nel 2003 collabora con MSF a un progetto sull’immigrazione in Italia, poi divenuto libro (“Nero”, Logos, 2007). Nel 2006 partecipa al progetto “Beijing In and Out” e nel 2007 lavora in Cambogia per Action Aid, lavoro pubblicato nel libro “La ruota che gira” (Contrasto). Nel 2009 il suo lavoro in Afghanistan, realizzato in collaborazione con Emergency, è fra i finalisti del premio Photoespaña Ojodepez Human Values Award. Nel 2016 è stato in Etiopia con il Network Italiano Salute Globale [già Osservatorio Aids] e nel 2017 sempre per il Network in Burkina Faso documentando i progetti della cooperazione internazionale legati alle violenze sulle donne, sui minori e Hiv ed è stata realizzata la mostra “Burkinabè” che è stata presentata a Roma, Brescia, Conversano di Bari, Napoli.